Come si scappava dai sommergibili italiani affondati ai tempi della Guerra

| 26 gennaio 2009 | 0 Comments

Nel 1928, durante una esercitazione nei pressi di Pola, il sommergibile F14 affondò, speronato accidentalmente dalla Missori, un’altra nave partecipante alle manovre. Il sommergibile scivolò ad una profondità di 40 metri, adagiandosi sul fondale. Le altre navi che partecipavano all’esercitazione accorsero sul posto immediatamente e dopo aver lanciato delle boe di segnalazione per ritrovare la posizione approssimativa del relitto, provarono a portare dell’aria ai sopravvissuti tramite un tubo. Purtroppo tutti i tentativi risultarono vani e venne allora chiamata una nave ponte per tirare su il relitto dal fondale e liberare i sopravvissuti che nel frattempo continuavano a comunicare con la superfice tramite telegrafo. La nave di soccorso arrivò in fretta, ma una volta portato in superfice l’F14 ed aperti i portelloni, si scoprì che tutti i sopravvissuti erano morti a causa delle esalazioni di cloro provenienti dalle batterie inclinate di 70 gradi come il resto dello scafo.

ascensore_gerolimi_arata_3Questo avvenimento, probabilmente, portò in Italia la volontà di creare un sistema di soccorso per i sommergibilisti intrappolati sui fondali. L’Italia, particolarmente attenta a questo tipo di supporto, sviluppò una tecnica diversa dal resto delle marine del mondo, anche se poi non fu presente su tutti i sommergibili nostrani e comunque, durante la guerra, non portò i risultati sperati. La marina americana aveva creato delle maschere che permettevano agli uomini di uscire dal sommergibile affondato fino ad una profondità di 30 metri, anche se poteva provocare dei problemi di compensazione. Un’altra tecnica molto utilizzata era la campana che, calata da una nave in superfice, permetteva agli uomini entrandovi di essere issati in superfice senza entrare a contatto con l’acqua e la pressione esterna. In Italia, venne ideato un dispositivo, chiamato “Ascensore Gerolimi Arata”. Questo impianto non era altro che un semplice ascensore a tenuta stagna, collegato al sommergibile tramite un cavo. ascensore_gerolimi_arata_1Il sopravvissuto entrava in questo “siluro cavo” e vi si chiudeva dentro a tenuta stagna. La piccola stanza in cui si trovava questo “siluro cavo” veniva allagata e la spinta di archimede faceva andare a galla la capsula con il marinaio all’interno. Una volta arrivato in superfice usciva dall’ascensore e la capsula veniva ritirata all’interno del sommergibile tramite un cavo riavvolgibile ed era pronto a essere riutilizzato per i prossimi superstiti. Come già detto, raramente i sommergibilisti in guerra riuscirono ad utilizzare questo congegno per salvarsi. Probabilmente a causa anche dell’unico accesso a questo dispositivo, che in caso di allagamento della paratia in questione, lo rendeva inutilizzabile. ascensore_gerolimi_arata_2Di tutta questa triste storia c’è una sola cosa positiva, un discendente di questo dispositivo viene ancora oggi utilizzato dalle marine di alcuni paesi del mondo anche se notevolmente migliorato (aerazione interna e possibilità di contenere anche tutto l’equipaggio). Purtroppo, anche al giorno d’oggi questa nuova versione dell’ascensore, ha dimostrato dei punti deboli come i bulloni esplosivi per il distacco della capsula che non sempre esplodono correttamente e l’inclinazione del sottomarino che non sempre permette il distacco del dispositivo.

A tutti coloro che vogliano vedere l’Ascensore Gerolimi Arata in funzione, consiglio la visione del film “Uomini sul Fondo”, una pellicola girata nel 1941 in accordo con la Marina e senza attori professionisti, solo puri e semplici veri marinai.

P.S. Le immagini sono tratte dal già sopracitato film “Uomini sul Fondo”.

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